Davide Cassia e Stefano Sampietro, La clessidra d’avorio, Edizioni XII, 2010.
Recensione di Simone Barcelli
Tutti alla cerca di qualcosa che pare perdersi nei meandri della storia: una clessidra d’avorio, che ben rappresenta la bramosia dell’uomo di raggiungere la perfezione.
Un romanzo storico ben scritto, in cui si percepisce lo sforzo degli autori nella ricerca bibliografica,con l’innesto dell’abile intreccio tra l’arte alchemica e il giuoco degli scacchi (che tanto hanno in comune per le interpretazioni simboliche), su piani temporali diversi che s’intersecano e riescono a coesistere grazie alle pagine ingiallite di un memoriale scritto da un alchimista quattrocento anni fa.
Ambientato essenzialmente nei primi anni del XIX secolo, racconta del nobile francese Darius Berthier de Lasallee di suo figlio Sebastien su e giù per la nostra penisola, sulle tracce dell’avventuriero Moran de la Fuente.
La mente corre inevitabilmente al viaggio di Johann Wolfgang von Goethe nel 1786 (e alle magnifiche pagine che narrano di questa esperienza, pubblicate quasi trent’anni dopo), un’impresa notevole per quei tempi in cui, tra lentezza, incertezza e pericolo,in pochi avevano l’ardire di mettersi in cammino, se non per una valida ragione.
Nel romanzo ciò che muove il protagonista è il sentimento dell’amicizia, la sensazione che Moran si sia cacciato in un brutto guaio e abbia inconsciamente bisogno di lui.
Il lettore dovrà interrogarsi anche sul tormentato rapporto padre-figlio perché le problematiche che affiorano in queste pagine non si discostano da quelle che affrontiamo ancor oggi.
L’ombra di Paracelso, enigmatico studioso del Rinascimento, accompagnerà costantemente un pur scettico Darius, fornendogli infine l’ispirazione di cui necessita per dipanare l’intricata matassa.
Il libro, originariamente pubblicato da Edizioni XII nel 2010, è oggi disponibile solo nella ristampa del 2018.