Sönke Neitzel e Harald Welzer, Soldaten. Combattere uccidere morire. Le intercettazioni dei militari tedeschi prigionieri degli Alleati, Garzanti, 2012.
Recensione di Simone Barcelli
Nel 2007, fece scalpore un libro curato dallo storico Sönke Neitzel, professore all’Università di Magonza: Tapping Hitler’s Generals: Transcripts of Secret Conversations, 1942-45.
In quel volume si dava conto per la prima volta delle migliaia di conversazioni intercettate da inglesi e americani durante la Seconda Guerra Mondiale, diventati di dominio pubblico solo nel 1996.
In questi dialoghi, diligentemente registrati su vinile e trascritti in verbali custoditi nell’archivio di stato britannico a Londra e ai National Archives di Washington, i tedeschi prigionieri nel centro di detenzione di Trent Park, soprattutto ufficiali della Wehrmacht (tra cui i generali Ludwig Crüwell, Dietrich von Choltitz, Friedrich von Broich, Georg Neuffer, Heinrich Kittel e il tenente colonnello August von der Heydte) discutono apertamente dei crimini di guerra commessi dalle loro truppe sul fronte orientale, soprattutto i massacri nei confronti di ebrei e russi. E nel farlo, manifestano senza alcun pudore i sentimenti di piacere provati nel mentre ordinavano queste uccisioni.
Si tratta quindi di un resoconto molto crudo ma veritiero delle nefandezze compiute in guerra, una testimonianza inoppugnabile che mette all’angolo definitivamente anche il personale della Wehrmacht.
Neitzel spiegava in un’intervista che la Wehrmacht combatté fino all’ultimo perché «talmente impregnata di ideologia nazista da sostenere che i russi volevano sterminare il popolo tedesco e che l’unico modo per impedirlo fosse perdere con onore».
Lo storico Richard Overy s’interroga invece, giustamente, sul mancato utilizzo, all’epoca, di quelle intercettazioni: «Le conversazioni furono, come risultò, di aiuto molto limitato alla condotta della guerra, sebbene fornissero una ricchezza di prove sulla natura del sistema nazionalsocialista che sembra essere stato ampiamente ignorato o scarsamente sfruttato quando in seguito si venne a processare i generali tedeschi per crimini di guerra […] Nei tre anni durante i quali sono state effettuate le registrazioni, l’intera panoplia dei crimini (l’assassinio di massa di ebrei, l’uccisione di ostaggi, l’incendio di chiese piene di vittime, ecc.) viene riconosciuto e descritto […] La domanda che rimane è perché così pochi degli ufficiali siano mai stati processati in seguito – nonostante le cose che hanno ammesso in privato – o perché, leggendo resoconti fin dal 1942 e 1943, gli inglesi non hanno esposto più pienamente l’orrore di ciò che stava accadendo sul fronte orientale […]».
Overy ritiene che questi estratti esercitino «un fascino cupo. Rappresentano una finestra unica e non mediata nelle menti di un’élite militare, brutalizzata dalla Prima guerra mondiale, amareggiata da quello che vedevano come un trattamento ingiusto della Germania e infine intrappolata nelle seducenti spire del nazionalismo radicale di Hitler. La strana miscela rivelata qui di risentimento, razzismo, innocenza politica e arroganza professionale è un cocktail che lascia un retrogusto sgradevole».
Nel 2011 Neitzel, stavolta con il contributo dello psicologo Harald Welzer, ha scritto un secondo volume sull’argomento: Soldaten – On Fighting, Killing, and Dying: The Secret Second World War Tapes of German POWs, tradotto in italiano l’anno dopo.
In questo tomo, oltre ai dialoghi intercettati a Trent Park, trovano spazio quelli captati a Wilton Park nel Regno Unito e Fort Hunt negli Stati Uniti, curati rispettivamente dai Secret Interrogation Center e dagli Joint Interrogation Centre.
I verbali delle intercettazioni vengono presentati inserendo preliminarmente una cornice di riferimento della guerra, in cui si discute delle trasformazioni che hanno differenziato, rispetto alla repubblica di Weimar, la società tedesca durante il Terzo Reich. Tra queste vi è innanzitutto l’inizio della ripresa economica, la percezione di maggiore sicurezza e ordine, la riconquista di un orgoglio nazionale e l’identificazione con il Führer.
In un simile quadro, la Wehrmacht e le varie organizzazioni di partito (Hitlerjungend, SA e SS), anche con la reintroduzione della leva obbligatoria, hanno messo in atto la militarizzazione dell’intero popolo tedesco, perpetrando con successo la penetrazione militare nella società.
Gli autori suggeriscono che con «l’eliminazione per mezzo di un genocidio di gruppi di persone che non hanno nulla a che fare con le operazioni militari» e «il trattamento riservato ai prigionieri di guerra russi, per cui si può parlare, ancora una volta, di genocidio», si rinvengono visioni ideologiche e razziste che «trasformano le strutture di opportunità della guerra nella pratica di distruzione e sterminio più radicale che la modernità abbia riconosciuto».
Molti crimini che oggi sono contemplati nella guerra d’annientamento e nell’Olocausto, «durante gli anni della guerra erano inquadrati in modo completamente diverso, per esempio, come lotta ai partigiani».
Insomma, i combattenti tedeschi impegnati sul fronte orientale, stando al contenuto dei dialoghi captati, non percepivano di compiere crimini di guerra, anche per gli ideali razzisti di superiorità inculcati loro dal regime nazista.
Dal sunto delle intercettazioni, Neitzel e Welzer arguiscono che la maggior parte dei soldati «era sì al corrente dei crimini, non pochi vi partecipavano attivamente, ma nel loro quadro di riferimento quei crimini non occupavano un posto speciale.
Per i soldati era più importante la propria sopravvivenza, i congedi che avrebbero ottenuto, ciò che si poteva “organizzare”, il modo in cui ci si poteva divertire, e non tanto ciò che succedeva agli altri, tanto più a coloro che venivano definiti “di razza inferiore”».
Molti di questi soldati in stato di prigionia, erano quindi ben informati circa il processo di sterminio degli ebrei, arrivando anche a raccontare aspetti ancor oggi sconosciuti alla ricerca.
Eppure «la condotta della maggior parte dei soldati prescinde da tali conoscenze, sebbene, già negli anni del conflitto, sapessero che certe unità della Wehrmacht avevano commesso numerosi crimini di guerra ed erano state massicciamente coinvolte nelle fucilazioni sistematiche degli ebrei nelle zone d’occupazione, come esecutori, spettatori complici, forze ausiliarie o semplicemente persone informate sui fatti».
Da quel che emerge in questi dialoghi intercettati, l’azione violenta dei soldati era inoltre completamente slegata dalle convinzioni politiche.
Infine, Neitzel e Welzer ragionano con sgomento sul fatto che crimini del genere avvengono comunque in ogni guerra: «[…] molto di ciò che nei crimini di guerra, visto retrospettivamente, ci sembra crudele, senza legge e barbaro fa parte, in realtà, della cornice di riferimento della guerra […] Per gran parte dei soldati, finché non devono comparire davanti alla corte marziale, i crimini di guerra non hanno nulla di spettacolare, e questo perché si tratta di violenza strumentale. E non deve stupire che in guerra questa venga utilizzata».
Il giornalista Ian Thomson, discutendo di questo volume su The Guardian, ha sottolineato che «la crudeltà mostrata dall’esercito tedesco nei confronti di donne e bambini ebrei è uno dei temi più strazianti di Soldaten, [che] suggerisce una storia diversa. Gli scambi di conversazioni rivelano azioni disumane compiute non solo dalle SS e dalla Gestapo, ma da soldati tedeschi di ogni grado e servizio. […] Alcuni lettori potrebbero sussultare davanti ai resoconti di prima mano del piacere provato nello stupro e nella distruzione. […] Era raro che un soldato tedesco si preoccupasse di distinguere tra obiettivi militari e non militari (sebbene anche altre nazionalità fossero colpevoli di questo). Soldaten solleva interrogativi inquietanti sul destino dei civili sulla linea di fuoco. Fornisce un record documentario essenziale; raramente la sorveglianza è stata utilizzata per un uso così importante».