Recensione di Simone Barcelli
Luigi Grassia, l’autore di questo libro, è un reporter che ha girato il mondo in cerca, anche, di storie minime. Con Arcana imperii, ha il merito di lumeggiare in maniera direi definitiva la figura di George Frost Kennan (1904-2005), pensatore e diplomatico statunitense, le cui acute analisi hanno rappresentato per decenni uno spunto e una spina nel fianco per la politica estera degli Stati Uniti. Il pensiero illuminato di Kennan è tuttora di grande attualità per comprendere davvero i rapporti fra l’Occidente e la Russia, in un contesto geopolitico che spesso è difficile districare. Le lucide analisi di Kennan, che non si faceva problema a cambiare opinione spinto dagli eventi della Guerra fredda, riecheggiano nelle pagine di questo volume, che ha il merito indiscutibile di essere l’unico disponibile, finalmente, in lingua italiana, che racconta per filo e per segno la figura ciclopica di Kennan.
In una recente intervista, Grassia rivela che Kennan «fin dai tempi di Stalin considerava le manifestazioni garrule di antipatia nei confronti di un leader straniero come il livello intellettualmente più basso che si possa toccare nella politica internazionale», nonostante avesse sul leader sovietico una pessima opinione, ma d’altronde anche Stalin la pensava allo stesso modo sul suo conto. Kennan, inoltre, «non ha mai approvato alcuna sanzione economica all’Urss di Stalin o di Breznev», e oggi la sua posizione, se fosse ancora in vita, potrebbe essere la stessa. L’autore, traendo spunto dal pensiero di Kennan, Kissinger e Ferguson, ritiene che è «lecito perorare la necessità di compromessi di potere con il Cremlino usando argomenti razionali e sulla pura base dell’interesse dell’Occidente, senza essere filo-russi, o filo-Putin, o sovranisti, o affetti da altre presunte tare morali o intellettuali». Insomma, secondo Grassia «un compromesso con il Cremlino sull’Ucraina sarebbe per Kennan nell’ordine naturale delle cose, sia pure senza alcun abbraccio a Putin».
Per comprendere meglio il ruolo determinante di Kennan nella polita estera americana dell’epoca, ancor prima di leggere il volume di Grassia, occorre però ricostruire sommariamente i fatti.
Il celebre discorso del presidente Harry Truman di fronte a una sessione congiunta del Congresso degli Stati Uniti, il 12 marzo 1947, passato alla storia come “Dottrina Truman”, ma anche il Piano Marshall (l’European Recovery Program per incentivare la ripresa dell’Europa dilaniata dalla Seconda Guerra Mondiale), furono ispirati dagli scritti di Kennan, che in almeno due circostanze espresse pesanti riserve sulla possibilità di intrattenere rapporti amichevoli con la Russia.
Il 22 febbraio 1946, quand’era capo diplomatico della missione statunitense a Mosca, egli trasmise quello che poi fu definito un “Lungo telegramma”, in cui sostanzialmente esortava il Segretario di Stato a sviluppare fin da subito una diversa strategia nelle relazioni diplomatiche con la Russia, poiché Stalin aveva comunque bisogno di un nemico esterno per dare un senso al regime totalitario, così da giustificare gli enormi sacrifici richiesti alla sua gente asservita al comunismo. D’altro canto anche l’economia americana, i cui interessi da sempre si sovrapponevano a quelli politici, aveva l’esigenza d’individuare già da subito un nuovo nemico, stavolta nella dispotica Russia di Stalin e nell’ideologia comunista.
Per alcuni osservatori, come spiega lo storico Odd Arne Westad, il capitalismo è sempre stato la colonna portante della politica estera statunitense: «Sia prima che durante la Guerra fredda, in più di una situazione, interessi affaristici concreti hanno rivestito un ruolo diretto e decisivo negli interventi americani».
Westad chiarisce inoltre che «solo la rivalità con il comunismo sovietico poteva originare l’appoggio della maggioranza degli statunitensi all’impegno militare permanente all’estero e a una politica interventista nel Terzo mondo. L’enorme ascesa della potenza sovietica per effetto della Seconda guerra mondiale – conflitto del quale era stata l’altro grande trionfatore – avrebbe costituito una sfida per qualunque grande potenza impegnata in Europa o in Asia. Fu però l’insistenza ideologica americana nel credere che l’espansione postbellica della forza sovietica, se non controllata, potesse provocare una diffusione globale del comunismo a tramutare la rivalità tra le due superpotenze in una Guerra fredda. Per le élite statunitensi, l’ascesa dell’Unione Sovietica a potenza di dimensioni mondiali portava con sé l’ascesa di una forma alternativa di modernità, cui l’America si era opposta fin dal 1917».
Le grandi aziende multinazionali volevano, infatti, continuare a massimizzare i profitti, dopo averli tanto incrementati durante il secondo conflitto mondiale con gli ordini statali per le forniture belliche, ma anche con l’eliminazione dei possibili concorrenti e l’apertura di nuovi mercati.
Come spiega bene lo storico Jacques R. Pauwels, nel 1945, dopo la sconfitta di Germania e Giappone, «un nuovo nemico venne fatto apparire e la funzione di massimizzare i profitti svolta dalla Seconda Guerra mondiale venne sostituita da una nuova guerra, questa volta “fredda”. Il motore dell’economia americana poté così continuare a funzionare a pieno regime con grande vantaggio delle Corporation, che poterono fornire missili ed altre bizzarre apparecchiature militari a prezzi stratosferici […]». D’altronde non è mai facile «trovare sempre nuovi nemici, che consentano di legittimare il perpetuarsi dell’economia di guerra americana».
Anche per queste ragioni, nel luglio 1947 Kennan rincarò la dose pubblicando sotto lo pseudonimo “X” sulle pagine del bimestrale Foreign Affairs, l’articolo The Sources of Soviet Conduct (“Le origini della Condotta Sovietica”), rilevando che l’espansionismo sovietico andava contenuto soprattutto in quei paesi in cui gli Stati Uniti riversavano maggior valore strategico.
John Lewis Gaddis, professore di storia militare alla Yale University, arguiva che, nell’estate 1947, gli Stati Uniti si erano comprati un impero, mentre l’URSS, non avendone la possibilità, aveva fatto altrettanto ma con la forza delle armi e dei servizi segreti.
Nel settembre 1952, dopo nemmeno un anno che ricopriva la carica di ambasciatore in Unione Sovietica, Kennan fu espulso poiché considerato persona non gradita: infatti, nel corso di un’intervista, egli aveva incautamente comparato la sua permanenza all’ambasciata di Mosca, dov’era rigidamente controllato, al periodo di detenzione sofferto a Berlino per cinque mesi sul finire del 1941, con l’avvio delle ostilità tra la Germania e gli Stati Uniti.
Ovviamente il paragone con il regime nazista non fu preso per niente bene da quello comunista.
Nonostante le sue indubbie credenziali antisovietiche, Kennan, come ricorda Grassia nel libro, ha sempre affermato «la necessità di negoziare fra nemici su temi vitali come il disarmo nucleare senza subordinare la trattativa ad altri dossier, di non spezzare mai il filo della diplomazia, di accettare l’Unione Sovietica così com’era, come dato di fatto, senza deplorarne l’esistenza e senza cercare di cambiarne il regime, e soprattutto senza scadere in manifestazioni di ostilità istrionica; a suo giudizio una politica estera che si risolve in una garrula e sterile espressione di antipatia nei confronti di un paese straniero, o peggio ancora della singola persona del suo leader, rappresenta il livello intellettuale più basso che si possa riscontrare nell’arena internazionale».
D’altronde fu lo stesso Kennan a sottoporre a revisione critica, più volte, la dottrina del contenimento da lui concepita, soprattutto quando la politica estera degli Stati Uniti stagnava, non riuscendo a raggiungere i risultati sperati.
Arcana Imperii è senz’altro un libro bello ma anche difficile, soprattutto per chi non conosce a fondo i meandri della storia del Novecento. Nelle sue pagine, tramite gli illuminanti (e spesso impertinenti) scritti di Kennan, Grassia restituisce, a tutto tondo, l’immagine di un grande diplomatico, il cui pensiero è, purtroppo o per fortuna, ancora attuale e vibrante.