Zucchero Fornaciari, Il suolo della domenica. Il romanzo della mia vita, Mondadori, 2011.
Recensione di Simone Barcelli
“Il suono della domenica” (Mondadori, 2011) dovrebbe essere la biografia di Zucchero Fornaciari, nulla di più, nulla di meno.
E invece, fin dall’inizio, ci si accorge che il cantante, quasi componesse un’altra canzone del suo vasto repertorio, ci regala di getto trecento pagine di poesia, tante sono le emozioni che si possono respirare sfogliando questo libro.
A parte il racconto della sua vita, che davvero pare essere un contorno al resto, quasi un diversivo, il lettore si ritrova catapultato in un’altra dimensione, indietro di quasi cent’anni, in atmosfere perdute, quelle di un mondo contadino che ormai fatica a sopravvivere e le cui gesta si ridestano solo per le parole che qualche anziano dispensa al tepore di un focolare domestico.
Il racconto di Zucchero è un tuffo nel passato, dalla povertà della difficile infanzia al raggiunto benessere della rockstar c’è tutta una vita da ricordare.
E Adelmo trova il coraggio di mostrarsi, più di quel che ti aspetti.
Senza compromessi, arriva a rivelare anche quel che ognuno di noi terrebbe per sè.
Scrive per scacciare mali oscuri, come fosse a una seduta (pubblica) per psicoanalizzare il disagio che attraversa la sua anima.
Scrive anche e soprattutto per lasciare traccia di quel mondo rurale che si sente cucito addosso (e che emerge prepotente nei testi di tante canzoni), senza nessuna vergogna, anzi, con la consapevolezza che non potrà mai rinunciare a quelle radici.
Come sostiene l’autore, quel che prova non è nostalgia, bensì memoria, un bel libro dei ricordi che conserva con cura.
Il suono della domenica è ormai perso: i rumori, i profumi, le emozioni e le sensazioni provate in quell’infanzia così vicina nella mente, ma così lontana nel tempo, non ci sono più.
“…quando si fermava tutto, in un tempo sospeso e rarefatto, e il suono era quello delle voci squillanti dei bambini che correvano e giocavano, era quello delle campane, il rumore dei piatti a tavola, delle stoviglie, del mestolo che versa il brodo, del cucchiaio che ciocca nel piatto…”.
E il ciocabèc paterno, che Zucchero riversa con infinita dolcezza anche tra i solchi delle canzoni dell’omonimo album, diventa il chiavistello che apre le porte al bambino che ancora vive in lui, l’unico in grado di sentire il perduto suono della domenica.