Alfred Wahl, La seconda vita del nazismo nella Germania del dopoguerra, Lindau, 2007.
Recensione di Simone Barcelli
Per cercare di comprendere come sia stato possibile, nel dopoguerra, il reclutamento di così tanti nazisti nei servizi segreti alleati, nell’Organizzazione Gehlen e poi nella BND della Repubblica Federale Tedesca, non è sufficiente richiamare il crescente sentimento anticomunista che avrebbe, di lì a poco, spianato la strada anche alla Guerra fredda.
È quindi necessario individuare altre cause o concause all’origine del fenomeno e tra queste certamente dobbiamo considerare i limiti della cosiddetta denazificazione l’azione intentata dagli Alleati nel dopoguerra, durante il periodo di occupazione della Germania, per cancellare l’ideologia nazionalsocialista, rimuovendo dalla scena politica e amministrativa tedesca i personaggi di maggior spicco che avevano aderito convintamente al Partito Nazionalsocialista di Hitler.
La seconda vita del nazismo nella Germania del dopoguerra, di Alfred Wahl, professore emerito di storia contemporanea all’Università di Metz, pubblicato da Lindau nel 2007 (la prima edizione in lingua francese è dell’anno prima), è senza dubbio un testo di riferimento per comprendere i limiti della ‘denazificazione’.
Nonostante le stringenti direttive impartite dagli americani nella prima fase di denazificazione, che individuavano precise categorie di persone suscettibili di allontanamento («dal criminale di guerra ai semplici membri dell’NSDAP passando per i membri delle SS e delle SA»), Wahl specifica che tra queste vi erano soprattutto persone investite fino al 1945 di incarichi di responsabilità.
Cacciare questi funzionari che avevano servito durante il periodo nazista, significava lasciar spazio a quadri dirigenti provenienti dalla ricostituita opposizione di sinistra: «la sopravvivenza dell’anticomunismo portò a una certa indulgenza nei riguardi degli ex nazisti», sentenzia Wahl.
Anche nelle zone d’occupazione amministrate dai francesi e dai britannici, la denazificazione, certamente condotta in modo addirittura più blando rispetto a quella promossa dagli americani nella porzione d’interesse, non produsse risultati eclatanti, tanto che nel giro di qualche anno gli ex nazisti tornarono pure sulla scena politica, potendo decretare il rigetto di ogni forma di punizione nei loro confronti.
Nella zona d’influenza britannica, per esempio, non era nemmeno obbligatorio, rispetto a quel che accadeva nella fascia americana, compilare il modulo, inizialmente chiamato Fragebogen e poi dal 1946 Meldebogen, in cui ogni tedesco doveva rispondere a un questionario e inserire dati attinenti al suo passato.
Nel 1949 i campi della sola zona d’occupazione francese, in cui furono rinchiuse nel dopoguerra decine di migliaia di prigionieri, erano quasi vuoti e furono chiusi l’anno successivo.
Wahl specifica che gli americani temevano «che i militanti antifascisti cercassero di promuovere riforme economiche e sociali contrarie al liberismo, perciò reintegrarono nei consigli aziendali nazisti che i sindacati appena ricostituiti avevano estromesso e si assistette al ritorno di vecchi dirigenti e raccomandati». E ancora: «in un modo o nell’altro, le imprese conservarono i propri dirigenti nazisti e si adeguarono solo apparentemente alle direttive, a volte assumendo i propri dirigenti come se fossero semplici assistenti o addirittura guardiani».
Lo storico sottolinea anche la recondita paura degli americani di provocare il caos nelle istituzioni, nel caso fossero stati cacciati tutti i nazisti dalla pubblica amministrazione. Alla fine della denazificazione, nel 1949, «i tedeschi erano coscienti che la gigantesca campagna di epurazione si era trasformata in una mostruosa operazione di riabilitazione dei nazisti».
Ecco perché la politica perseguita dal cancelliere Konrad Adenauer, fin dalla formazione della Repubblica Federale Tedesca nel settembre 1949, fu subito indirizzata sulla clemenza verso gli ex nazisti, anche per favorirne la permanenza (anziché la ventilata epurazione) soprattutto nelle strutture politiche e amministrative di uno stato dilaniato nel profondo, che cercava di dimenticare, forse troppo in fretta, un passato ingombrante e compromettente.
Non è un mistero che quasi il 70% degli alti funzionari impiegati nel Ministero degli Esteri, detenuto dallo stesso Adenauer, fossero ex nazisti, come ammise lui stesso.
Inoltre, tra i collaboratori più stretti del cancelliere, c’erano Albert Kesselring, il generale della Luftwaffe che in Italia si rese responsabile di molti crimini di guerra, e Hans Globke, uno dei giuristi che scrisse le leggi razziali di Norimberga sulla discriminazione degli ebrei.
Quest’ultimo, già relatore al Ministero degli Interni di Wilhelm Frick, in particolare per le questioni ebraiche, era stato elogiato da Frick stesso nell’aprile 1938 per essersi notevolmente distinto nella messa a punto di alcune leggi razziali, in particolare per quel che riguardava i matrimoni tra ebrei e soggetti di “sangue tedesco”.
In sostanza, secondo Wahl, quasi tutti gli ex nazisti ebbero la possibilità di servirsi del sistema democratico per ritornare anche a far politica, nonostante fossero pesantemente compromessi, poiché nel frattempo erano stati inseriti in una categoria che li individuava come ‘semplici conformisti’.
In fondo anche l’opinione pubblica tedesca, all’epoca, non vedeva l’ora di voltare pagina e scrollarsi di dosso l’identificazione che si faceva dell’intera società tedesca col nazismo e il Terzo Reich: un’adesione che era stata pressoché totale.
Inoltre, fin da subito, anche figure di rilievo delle chiese protestanti e cattoliche, esercitarono continue pressioni sui funzionari alleati, e poi su quelli tedeschi, per terminare quanto prima l’azione di denazificazione. Il processo di Norimberga, la più significativa operazione di denazificazione, non veniva avvertito dall’opinione pubblica come del tutto legittimo, poiché la maggioranza dei tedeschi, che aveva aderito al nazismo per convinzione o per conformismo, ancora non ravvisava il carattere eccezionale dei crimini commessi, e pertanto vi scorgeva solo «la giustizia dei vincitori intenti a punire gli avversari sconfitti».
Le successive azioni giudiziarie, prosegue Wahl, si svolsero nell’indifferenza totale: affidate sempre più a tribunali composti da giudici tedeschi, i condannati furono rimessi addirittura in libertà, migliaia di condanne a morte (pronunciate dai tribunali civili) furono dimenticate e altrettante comminate dai tribunali militari.
Sovente i giudici attribuirono alle condotte criminali isolate una motivazione politica, escludendo un qualche interesse personale che avrebbe condotto alla condanna: insomma, così sentenziando, l’imputato poteva beneficiare delle attenuanti del caso, poiché era stato “educato secondo i dettami dell’ideologia nazista”, che “l’aveva pervertito dal punto di vista morale”.
I giudici consideravano quindi legittima la legislazione criminale nazista in vigore prima del 1945, cui si erano in precedenza conformati rigidamente, e così facendo scagionavano se stessi: «i giudici in carica dopo il 1945 e poi sotto la Repubblica Federale incarnavano doppiamente la continuità del regime nazista: in primo luogo con la loro presenza nei tribunali e in secondo luogo con la loro continua preoccupazione di legittimare la legislazione criminale dei nazisti».[1]
Senza contare, naturalmente, le amnistie governative che seguirono negli anni successivi: la prima nel 1951 e la seconda nel 1954. Condoni del genere, d’altronde, furono decretati anche in Italia nel 1946 e nel 1953.
Tra le persone che beneficiarono dell’ultima amnistia, o delle scarcerazioni disposte dagli Alleati nel 1958, c’erano anche medici coinvolti in sperimentazioni su esseri umani e alcuni membri delle SS che avevano operato all’interno di unità mobili di uccisione.
Così facendo, si voleva restituire in fretta all’Europa lacerata del dopoguerra, un ruolo politico e militare strategico che passasse innanzitutto dalla Germania, il cui riarmo, avvenuto ufficialmente con l’ingresso nella NATO, sanciva la cancellazione completa delle responsabilità dell’esercito tedesco ma anche delle SS, annullando il ricordo di fatti a dir poco incresciosi e spiacevoli.
La responsabilità di questa generalizzata impunità concessa a una classe dirigenziale del tutto compromessa, fu senz’altro propiziata dalle azioni attuate da Adenauer, ma anche e soprattutto da quelle di una buona parte della magistratura, nei cui ranghi c’erano ancora gli stessi magistrati che avevano diligentemente servito il Terzo Reich durante il regime nazista.
La denazificazione e la punizione dei grandi criminali di guerra e dei nazisti più famigerati riprese vigore solo dal 1960, negli ultimi anni dell’era Adenauer, anche grazie alle minuziose indagini e ai documenti d’archivio rilasciati appena qualche anno prima dalla Repubblica Democratica Tedesca, finalmente presi nella giusta considerazione, nonostante il fine schiettamente propagandistico. Per riaprire qualche caso, fu decisiva anche l’azione di Israele che proprio in questi anni «si organizzava per perseguire i criminali nazisti stabilitisi fuori dalla Germania».
Un libro, quello di Wahl, imprescindibile per comprendere la complessità della denazificazione. Tra gli altri libri sull’argomento, seppur con qualche limite nell’analisi delle categorie professionali colluse col nazismo, anche Carriere. Le élite di Hitler dopo il 1945 (Bollati Berlinghieri, 2003) dello storico tedesco Norbert Frei e Exorcising Hitler: The Occupation and Denazification of Germany (Bloomsbury Paperbacks, 2012) dello storico britannico Frederick Taylor.
Hai letto un estratto dal libro “Le spie naziste degli Stati Uniti” (Idrovolante Edizioni, 2023).