Aram Mattioli, Mondi perduti. Una storia dei nativi nordamericani, 1700-1910 (Einaudi, 2019).
Recensione di Simone Barcelli
Mondi perduti. Una storia dei nativi nordamericani, 1700-1910 è un libro i cui contenuti, per certi versi, sono davvero strazianti. Si racconta infatti del tragico declino degli indiani d’America durante la progressiva espropriazione dei loro territori, culminata con la conquista del west, con le sue immense pianure, che tante pellicole cinematografiche hanno celebrato nel secolo scorso, raccontando di un periodo certamente leggendario, senza mai considerare le ragioni dei vinti.
L’autore, docente di storia contemporanea all’Università di Lucerna, ripercorre con dovizia di particolari i duecento anni che hanno segnato la fine della civiltà indigena americana, non solo per mano dei coloni, che sempre più numerosi invasero quelle rigogliose terre in cerca di un sogno, ma anche e soprattutto per l’intransigenza dimostrata nei loro confronti dai governi delle colonie americane, una volta liberatesi dal giuoco di inglesi e francesi. I dettami predicati dai padri costituenti, impressi a chiare lettere fin dal 1789 («Tutte le persone sono uguali davanti alla legge e beneficiano egualmente del diritto alla protezione da essa fornita…») e coscienziosamente ratificati dagli stati federati, servirono sì da modello per molte altre democrazie ma non furono certamente pensate per i nativi ‘selvaggi’, che furono sempre considerati appartenenti a una razza inferiore rispetto ai bianchi colonizzatori. Come sostenne in una circostanza il generale Philip Sheridan: «L’unico indiano buono che conosco è un indiano morto».
Questo razzismo strisciante ma non tanto, considerate le dichiarazioni pubbliche dei presidenti che si alternarono nel periodo in riferimento (che l’autore non manca di trascrivere diligentemente), i quali curarono fra l’altro e soprattutto i propri interessi poiché proprietari di aziende e possedimenti, fu la causa della rovina degli indiani d’America, in un tragico susseguirsi di eventi (certamente non solo l’usurpazione dei territori e delle risorse naturali), che ancor oggi gli americani, probabilmente per un senso di profonda vergogna, faticano a chiamare con il vero nome: genocidio. Di questo si trattò, aggravato anche dalla successiva pratica dell’etnocidio, cioè la distruzione sistematica, in tutti i modi possibili, della cultura degli indigeni per assimilarli sempre più al mondo ‘civilizzato’ che stava nascendo.
Il libro è anche ricco di riferimenti bibliografici, per chi vorrà approfondire qualche questione specifica di suo interesse.
Mattioli è un ottimo divulgatore, che riesce a districarsi più che bene in una tematica dibattuta solo da pochi decenni, la cosiddetta ‘questione indiana’, da quando cioè la storiografia ha reso finalmente giustizia ai popoli nativi – ormai, a quel che ne resta -, che a questo punto non sapranno davvero che farsene, di questa tardiva revisione dei fatti.